COP26: contrastare il cambiamento climatico

La COP26 si è conclusa ai “tempi supplementari” con un colpo di scena finale.

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COP26, cenni storici:

Si è conclusa, dopo oltre 300 ore di negoziati, la ventiseiesima Conferenza sul clima delle Nazioni Unite: la COP26. Ministri, delegati e rappresentanti delle diverse forze politiche coinvolte lasciano la Scozia con un testo – Il Patto per il Clima di Glasgow – firmato da tutti e 197 i Paesi partecipanti. Da ormai tre decenni, l’ONU (l’Organizzazione delle Nazioni Unite), riunisce la quasi totalità dei Paesi della terra per i vertici globali sul clima – chiamati COP – ovvero “Conferenza delle Parti“. Da tempo, infatti, il cambiamento climatico è passato dall’essere una questione marginale a diventare una priorità globale e gli ultimi risvolti socio-economici inerenti alla crisi pandemica non hanno fatto altro che accrescere l’attenzione sul tema.

Quest’anno si è tenuto il 26iesimo vertice annuale, da qui il nome COP26, nella città scozzese di Glasgow. Ma, quello di Glasgow, non si è trattato di un semplice vertice sul clima; la maggior parte degli esperti è da subito stato concorde nel sottolineare il carattere straordinario ed urgente della COP26, già rimandata di un anno a causa della pandemia da Covid-19 e che si è, inevitabilmente, portata sul groppone i fallimenti e gli strascichi della Conferenza di Parigi del 2015. A Parigi, infatti, si discusse per la prima volta della necessità concreta di collaborare al fine di limitare l’inesorabile aumento della temperatura globale. Inoltre i Paesi s’impegnarono ad adattarsi agli impatti dei cambiamenti climatici e a mobilitare i fondi necessari per raggiungere questi obiettivi, come azione diretta a lenire gli effetti nel breve periodo che tali cambiamenti stavano apportando e continuano ad apportare alle economie più colpite. La Conferenza di Glasgow è stato il momento, per i paesi partecipanti, di aggiornare i propri piani d’azione.

COP26, lente di ingrandimento sui principali risultati:

La COP26, si è conclusa ai “tempi supplementari” con un colpo di scena finale, ma non di quelli positivi: l’accordo è stato trovato, ma l’impegno all’uscita dal carbone e lo stop ai sussidi alle fonti fossili, inserito per la prima volta nella storia delle conferenze sul clima delle Nazioni Unite in una bozza iniziale, viene ridimensionato al ribasso; passando dalla tanto auspicata “phase out” o eliminazione ad una più graduale riduzione o “phase down”. Una sola parola, ma con una enorme differenza: il carbone, che doveva essere abbandonato, sarà solo ridotto. E neanche per intero; bensì con una formulazione vaga che suona come una “pezza”, messa in extremis per non scontentare tutti. Quattordici giorni di negoziazioni interminabili che si chiudono con l’amaro in bocca, con un finale inatteso frutto di un asse tra India, Cina e Stati Uniti, le tre principali potenze mondiali il cui volere ha messo all’angolo la volontà concreta (o presunta tale) degli altri 194 convenuti.

Volendo leggere i risultati della Conferenza di Glasgow in maniera critica, sono comunque emersi aspetti positivi e che lasciano uno spiraglio di speranza in vista degli interventi da porre in essere nell’immediato futuro. È stato ribadito e confermato l’impegno a fare il tutto il necessario per contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi, considerato dagli scienziati il valore limite entro cui mantenersi per prevenire conseguenze disastrose della crisi del clima. Il che si traduce, indirettamente, nella promessa a tagliare le emissioni almeno del 45% entro il 2030. Quanto ai sussidi alle fonti fossili si è parlato di blocco solo a quelli “inefficienti”. Una formula che accontenta Russia e Arabia Saudita ed “annacqua” il testo, lasciando un alone di incertezza sulle aree di intervento possibili. Oltre agli impegni già citati, è da considerare significativa la decisione di bloccare la deforestazione entro il 2030 e di ridurre del 30% le perdite di metano, dall’estrazione ai gasdotti, dannosissime per il clima.

COP26, risvolti economici e considerazioni finali:

È stata una Conferenza in cui si è parlato molto di risorse economiche, com’è inevitabile che fosse. Sul piatto, innanzitutto, i 100 miliardi di dollari all’anno a sostegno della transizione energetica promessi ai Paesi meno sviluppati nel 2009 a di Copenaghen. L’impegno è di aumentare, persino raddoppiare gli stanziamenti in futuro tra il 2025 e il 2030. Intanto, però, il traguardo dei 100 miliardi è stato posticipato al 2023. Ed è in questo ambito che si colloca uno dei principali nodi emersi dalle ore di contrattazione: quello sulle perdite e i danni (“loss and damage”). Trattasi di una formula convenzionale per indicare i risarcimenti che i Paesi meno sviluppati, ma più vulnerabili alla crisi del clima, chiedono alle economie più ricche. Ci aspettava che da Glasgow si uscisse con impegni concreti, un fondo dedicato e un meccanismo di restituzione. Invece l’accordo finale riconosce solo il diritto a perdite e danni. Ma nessun sistema di risarcimento e copertura.

Rispetto alla prima formulazione, il compromesso della COP26 è stato molto al ribasso. Tuttavia è anche la prima volta in cui l’accordo prevede formalmente alcune, seppure limitate, forme di uscita. Il 2025 rappresenta il giro di boa concreto, per capire se la Conferenza di Glasgow è stato un sostanziale punto di partenza o solo un meccanismo per limitare i danni, senza giungere mai ad un concreto cambiamento.

A cura di Davide Giacobbe

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